Un mestiere scomparso: il bifolco
Articolo di: Marcello Piccioni
L'avvento della società industriale ha mutato profondamente il nostro modo di vivere. Ha modificato anche il nostro modo di lavorare. Ha creato mestieri nuovi facendone scomparire molti altri. Ciò si è verificato nel settore industriale ma ancor di più si è visto nei numerosi mestieri scomparsi legati al mondo rurale. A questi, oramai, nessuno si interessa più.
Uno di questi mestieri scomparsi o in via di estinzione è quello del "bifolco".
Attualmente questa parola è considerata, al pari di villano e cafone, un insulto. In realtà questo mestiere, nelle comunità più grandi della Tuscia, fu tenuto nei secoli passati in grande considerazione e onore. Infatti esisteva la "Corporazione dell'Arte dei Bifolchi" con propria Chiesa, Confraternita e Ospedale. Nei piccoli centri non ebbero così grande importanza ma rivestirono sempre cariche pubbliche di rilievo.
Per essere bifolco o "biforco" occorreva, per lo meno, possedere una "vetta". La "vetta" era la coppia di buoi o più comunemente un bue e una vacca, di razza maremmana, con il mantello bianco sfumato di grigio, con corna immense.
Le vacche e i bovi venivano "addomati", cioè abituati a trascinare la "barrozza" e a rimanere sotto il peso del giogo. I buoi erano tori castrati. Si ricorreva a questa pratica, quando erano ancora giovenchi, per renderli più docili e mansueti e più adatti al lavoro di traino.
Quasi tutti i bifolchi però possedevano due vacche e un bove. Le vacche si alternavano al lavoro perché i proprietari facevano rispettare turni di riposo a quella gravida mettendo all'opera quella "soda". Queste bestie, comunque, meritavano sempre le migliori attenzioni da parte dei bifolchi i quali mettevano a loro disposizione i foraggi migliori e in razioni generose. La giornata lavorativa iniziava molto presto in quanto si dovevano trovare sul posto di lavoro, a volte distante diversi chilometri, dal paese, alle prime luci dell'alba.
Non sempre il lavoro si svolgeva tra i boschi ed i campi. Molte volte trasportavano al porto di Civitavecchia la "doga" di castagno che veniva esportata in Spagna o in Sardegna. Altri portavano a Roma il carbone e la legna da ardere.
Il bifolco, allora, si metteva in spallale "verte" (una bisaccia di tela di canapa con due tasche) con dentro, da una parte, un "culetto" di pane, un po' di fichi secchi, un "pénnolo" (grappolo d'uva) o un "portogallo" (arancia) e una bottiglia di vino; dall'altra tasca un po' di biada per le bestie.
Se invece la giornata lavorativa era meno lunga si portavano la "catana" (allora i famosi tascapani di Tolfa si chiamavano così) dalla quale spuntava il manico del "roncio" e il collo della bottiglia di "ammezzato" (vino allungato con acqua). Indossavano una giacca di fustagno con sopra, se era freddo, la "cappottina" (una specie di giaccone) e si coprivano i pantaloni di "pelle di diavolo" a "cica" (alla cavallerizza) con i "guardiamacchia" o cosciali di pelle di capra. Calzavano scarponi chiodati, provenienti da Ronciglione, rifiniti dagli immancabili gambali. Il cappello a falde larghe, di color nero o marrone o grigio, completava questa specie di divisa.
In tasca, però, avevano sempre lo "spadino", un coltello a serramanico con una lama molto lunga, affilatissimo e appuntito. Serviva per molte cose ma soprattutto per liberare velocemente la vetta in caso di ribaltamento della barrozza per non lasciar morire strozzate le vacche e, a volte, purtroppo, per dirimere questioni personali.
La mattina tiravano fuori le vacche o i buoi dalla stalla e li "aggiogavano". Mettevano, cioè, il collo delle bestie sotto il giogo e le legavano con la "pajara".
Uno di questi mestieri scomparsi o in via di estinzione è quello del "bifolco".
Attualmente questa parola è considerata, al pari di villano e cafone, un insulto. In realtà questo mestiere, nelle comunità più grandi della Tuscia, fu tenuto nei secoli passati in grande considerazione e onore. Infatti esisteva la "Corporazione dell'Arte dei Bifolchi" con propria Chiesa, Confraternita e Ospedale. Nei piccoli centri non ebbero così grande importanza ma rivestirono sempre cariche pubbliche di rilievo.
Per essere bifolco o "biforco" occorreva, per lo meno, possedere una "vetta". La "vetta" era la coppia di buoi o più comunemente un bue e una vacca, di razza maremmana, con il mantello bianco sfumato di grigio, con corna immense.
Le vacche e i bovi venivano "addomati", cioè abituati a trascinare la "barrozza" e a rimanere sotto il peso del giogo. I buoi erano tori castrati. Si ricorreva a questa pratica, quando erano ancora giovenchi, per renderli più docili e mansueti e più adatti al lavoro di traino.
Quasi tutti i bifolchi però possedevano due vacche e un bove. Le vacche si alternavano al lavoro perché i proprietari facevano rispettare turni di riposo a quella gravida mettendo all'opera quella "soda". Queste bestie, comunque, meritavano sempre le migliori attenzioni da parte dei bifolchi i quali mettevano a loro disposizione i foraggi migliori e in razioni generose. La giornata lavorativa iniziava molto presto in quanto si dovevano trovare sul posto di lavoro, a volte distante diversi chilometri, dal paese, alle prime luci dell'alba.
Non sempre il lavoro si svolgeva tra i boschi ed i campi. Molte volte trasportavano al porto di Civitavecchia la "doga" di castagno che veniva esportata in Spagna o in Sardegna. Altri portavano a Roma il carbone e la legna da ardere.
Il bifolco, allora, si metteva in spallale "verte" (una bisaccia di tela di canapa con due tasche) con dentro, da una parte, un "culetto" di pane, un po' di fichi secchi, un "pénnolo" (grappolo d'uva) o un "portogallo" (arancia) e una bottiglia di vino; dall'altra tasca un po' di biada per le bestie.
Se invece la giornata lavorativa era meno lunga si portavano la "catana" (allora i famosi tascapani di Tolfa si chiamavano così) dalla quale spuntava il manico del "roncio" e il collo della bottiglia di "ammezzato" (vino allungato con acqua). Indossavano una giacca di fustagno con sopra, se era freddo, la "cappottina" (una specie di giaccone) e si coprivano i pantaloni di "pelle di diavolo" a "cica" (alla cavallerizza) con i "guardiamacchia" o cosciali di pelle di capra. Calzavano scarponi chiodati, provenienti da Ronciglione, rifiniti dagli immancabili gambali. Il cappello a falde larghe, di color nero o marrone o grigio, completava questa specie di divisa.
In tasca, però, avevano sempre lo "spadino", un coltello a serramanico con una lama molto lunga, affilatissimo e appuntito. Serviva per molte cose ma soprattutto per liberare velocemente la vetta in caso di ribaltamento della barrozza per non lasciar morire strozzate le vacche e, a volte, purtroppo, per dirimere questioni personali.
La mattina tiravano fuori le vacche o i buoi dalla stalla e li "aggiogavano". Mettevano, cioè, il collo delle bestie sotto il giogo e le legavano con la "pajara".
Queste bestie avevano dei nomi strani e fantasiosi, per lo più vezzeggiativi: Arancio, Airone, Bellarosa, Bambacina, Caparola, Caporossa, Cappuccina, Carbonara, Canestrella, Cicuta, Cicala, Cerasola, Ciovetta,Capitano, Colonnello, Campagnola, Fornaretta, Fravolina, Passeggera, Riziero, Orlando, Malandrina, Spadina, Piazzarola, Mancinella...
Il giogo era fermato al timone della barrozza o della "codetta" per mezzo di due grosse corregge di cuoio (pelle di bufalo) a forma di anello legate tra di loro. Quella che stava sul giogo si chiamava "concia" quella che stava sul timone era il "chiovello".
Per impedire i movimenti di scivolamento verso l'avanti e l'indietro il "chiovello" era fermato sul timone da un tondino di ferro posto obliquamente chiamato "cavicchione".
Poi mettevano le "frocette" simili a grandi tenaglie con le ganasce arrotondate che entravano nelle narici delle bestie. Alle "frocette" era assicurata una corda che serviva per guidare da dietro gli spostamenti della vetta. Per guidare dal davanti si usava invece il "capezzino", una corda sottile legata alla base delle corna di ciascuna bestia.
Mentre la barrozza era usata per trasportare fieno, legna da ardere, sacchi, ecc. la "carretta" veniva usata per portare merci sfuse, come la pozzolana e le pietre. C'era poi la "codetta" che serviva quasi esclusivamente per trasportare i tronchi dal "taglio" all'"imposto" o alla segheria o direttamente alla stazione ferroviaria.
Le operazioni di carico dei tronchi, lunghi anche 20 metri, considerando che erano effettuate, per lo più, da un solo uomo non era una impresa titanica come potrebbe sembrare.
Il procedimento era questo: si faceva rotolare il tronco con un piede di porco per legarne l'estremità con una catena che veniva fissata al giogo dei buoi. Poi si interravano per 30-40 centimetri le ruote della "codetta". Il timone si conficcava nel terreno in modo da formare un piano inclinato sul quale, trainati dai buoi, si facevano risalire i tronchi. Era importante bilanciare il carico per non affaticare troppo le bestie.
Se il carico era tutto avanti "accollava" le bestie. Se invece era tutto dietro "dava l'aria", nel senso che il peso tirava verso l'alto il carro e i buoi. I tronchi, una volta caricati sulla "codetta" venivano fermati con grosse catene e con cunei.
Le prime avvisaglie che il bifolco era un mestiere in pericolo di estinzione si ebbero alla fine del secolo scorso allorché furono introdotte le prime macchine a vapore nell'agricoltura. La pressa a "fuoco" (cioè a vapore), veniva trainata dai buoi come pure la falciatrice, l'aratro di ferro, ecc. Si trattò però solo di un'epoca di transizione. La convivenza tra uomo, animale e macchina fu di breve durata, dovendo far posto ai mezzi più moderni.
Il vero regno dei bifolchi non erano i campi ma la macchia e così fu fino ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale. In questo periodo furono immessi sul mercato italiano, a prezzo stracciato, i residuati bellici americani. Le imprese boschive si dotarono quindi, dei famosi "gipponi" G.M.C. e Taunus della Ford, a tre assi con cabina telata o chiusa e a trazione integrale.
E fu così che man mano i bifolchi furono in parte estromessi da questo tipo di lavoro. Poi vennero i trattori, prima cingolati e poi gommati togliendo ai bifolchi anche quel piccolo spazio rimastogli.
Allora dovettero definitivamente cambiare tipo di lavoro: alcuni si inurbarono, altri si trasformarono in trattoristi, altri ancora si ridussero al allevare vacche da latte.
Dott. Marcello Piccioni
Il giogo era fermato al timone della barrozza o della "codetta" per mezzo di due grosse corregge di cuoio (pelle di bufalo) a forma di anello legate tra di loro. Quella che stava sul giogo si chiamava "concia" quella che stava sul timone era il "chiovello".
Per impedire i movimenti di scivolamento verso l'avanti e l'indietro il "chiovello" era fermato sul timone da un tondino di ferro posto obliquamente chiamato "cavicchione".
Poi mettevano le "frocette" simili a grandi tenaglie con le ganasce arrotondate che entravano nelle narici delle bestie. Alle "frocette" era assicurata una corda che serviva per guidare da dietro gli spostamenti della vetta. Per guidare dal davanti si usava invece il "capezzino", una corda sottile legata alla base delle corna di ciascuna bestia.
Mentre la barrozza era usata per trasportare fieno, legna da ardere, sacchi, ecc. la "carretta" veniva usata per portare merci sfuse, come la pozzolana e le pietre. C'era poi la "codetta" che serviva quasi esclusivamente per trasportare i tronchi dal "taglio" all'"imposto" o alla segheria o direttamente alla stazione ferroviaria.
Le operazioni di carico dei tronchi, lunghi anche 20 metri, considerando che erano effettuate, per lo più, da un solo uomo non era una impresa titanica come potrebbe sembrare.
Il procedimento era questo: si faceva rotolare il tronco con un piede di porco per legarne l'estremità con una catena che veniva fissata al giogo dei buoi. Poi si interravano per 30-40 centimetri le ruote della "codetta". Il timone si conficcava nel terreno in modo da formare un piano inclinato sul quale, trainati dai buoi, si facevano risalire i tronchi. Era importante bilanciare il carico per non affaticare troppo le bestie.
Se il carico era tutto avanti "accollava" le bestie. Se invece era tutto dietro "dava l'aria", nel senso che il peso tirava verso l'alto il carro e i buoi. I tronchi, una volta caricati sulla "codetta" venivano fermati con grosse catene e con cunei.
Le prime avvisaglie che il bifolco era un mestiere in pericolo di estinzione si ebbero alla fine del secolo scorso allorché furono introdotte le prime macchine a vapore nell'agricoltura. La pressa a "fuoco" (cioè a vapore), veniva trainata dai buoi come pure la falciatrice, l'aratro di ferro, ecc. Si trattò però solo di un'epoca di transizione. La convivenza tra uomo, animale e macchina fu di breve durata, dovendo far posto ai mezzi più moderni.
Il vero regno dei bifolchi non erano i campi ma la macchia e così fu fino ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale. In questo periodo furono immessi sul mercato italiano, a prezzo stracciato, i residuati bellici americani. Le imprese boschive si dotarono quindi, dei famosi "gipponi" G.M.C. e Taunus della Ford, a tre assi con cabina telata o chiusa e a trazione integrale.
E fu così che man mano i bifolchi furono in parte estromessi da questo tipo di lavoro. Poi vennero i trattori, prima cingolati e poi gommati togliendo ai bifolchi anche quel piccolo spazio rimastogli.
Allora dovettero definitivamente cambiare tipo di lavoro: alcuni si inurbarono, altri si trasformarono in trattoristi, altri ancora si ridussero al allevare vacche da latte.
Dott. Marcello Piccioni